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11-12-20   I   Francesca Fradelloni | Lettura : 6 Minuti

Conservare o trasformare, la città rivive mettendo al centro il progetto

Come il contemporaneo può misurarsi con la storia, con il tessuto urbano e con il cambio d’uso

«Sovrapponendosi ed integrandosi con l’esistente, le architetture dei diversi periodi hanno conformato la “forma urbis” di oggi. Si pone quindi come presupposto che la bellezza delle nostre città sia, di fatto, frutto di trasformazioni continue, avvenute in tutte le epoche: un fenomeno inarrestabile»

Pier Giorgio Giannelli

C

onservare o rinnovare? L’architettura contemporanea può misurarsi con la storia? Sì, attraverso il progetto e auspicabilmente attraverso lo strumento del concorso, dicono gli architetti. E nel dibattitto che prende fuoco nelle città italiane, in merito al come intervenire nella realtà consolidata e nei centri storici in particolare, le idee sono molteplici e spesso opposte. È il caso di Bologna, città sede della più antica università del mondo occidentale, nota per le sue torri e i suoi lunghi portici, in cui la diatriba tra il “mantenere” e il rinnovare è entrata nelle pagine del dorso locale di Repubblica in un acceso scambio epistolare tra cittadini ed esperti, per poi approdare in un convegno (in streaming) con illustri e numerosissimi ospiti, organizzato dall’Ordine degli Architetti di Bologna del capoluogo emiliano, nell’ambito dell’iniziativa Città Come Cultura - un progetto sostenuto anche dalla Direzione generale creatività contemporanea del Mibact. Una disputa cominciata a causa del restauro e riapertura dell’ex negozio di Dino Gavina, progettato da Carlo Scarpa nel 1961.

«Due approcci diversi, ma la città, si evolve e si trasforma. L’uomo le trasforma per venire incontro ai bisogni, alle aspettative, che si modificano anche esse, col tempo», precisa nell’introduzione al webinar, Pier Giorgio Giannelli, il presidente dell’Ordine di Bologna. «Ogni periodo storico ha apportato cambiamenti dando il proprio contributo secondo la propria sensibilità e cultura, seguendo lo “spirito del tempo”. Sovrapponendosi ed integrandosi con l’esistente, le architetture dei diversi periodi hanno conformato la “forma urbis” di oggi. Si pone quindi come presupposto che la bellezza delle nostre città sia, di fatto, frutto di trasformazioni continue, avvenute in tutte le epoche: un fenomeno inarrestabile. La rivisitazione dei tessuti storici e consolidati si fanno in punta di fioretto, qui in Italia. Preferiamo il restauro alla sostituzione, con rigore disciplinare e abbiamo oggi indubbie capacità di lettura del contesto, abbiamo tutte le competenze, siamo famosi per questo, come architetti italiani». Un moto naturale di rinnovamento. I centri storici non devono morire, devono essere vissuti, se no si abbandonano, come nei decenni precedenti molte città italiane hanno potuto sperimentare. Esistono prodotti sartoriali ma anche brutti progetti, volgari e assertivi. Bisogna mettere al centro il progetto, questo il punto. Alla comunità non bisogna urlare le ragioni, bisogna mettere in campo il ruolo della disciplina dell’architettura nella vita di tutti i giorni. 

Il tema della riqualificazione, del restauro, del riuso, del cambio di destinazione d’uso, della multifunzionalità di un manufatto è quindi tema attuale e scottante, affrontato a scala internazionale. Da Hannover a New York, tanti i progetti innovativa per recuperare edifici e complessi immobiliari a una nuova vita. 

Città quindi come cultura, come la letteratura, il cinema, il teatro, l’arte, l’architettura, sono tutte ri-costruzioni. «L’architetto, l’artista, il regista, il traduttore ricompongono, ricostruiscono il testo, le immagini in forma adattiva e interpretativa», racconta l’architetto Vincenzo Latina, siciliano, classe 1964, Architetto italiano dell’anno nel 2015, ma soprattutto grande esperto degli interventi sul costruito storico. Trasposizioni, traduzioni, appunto. Tanti gli esempi. Dalla “Deposizione dalla croce” di Rosso Fiorentino del 1521 esposto alla Pinacoteca di Volterra fino alla di “Ricotta” di Pier Paolo Pasolini del 1963; poi l’”Arancia meccanica” di Stanley Kubrick che diventa una trasposizione della “Ronda dei carcerati” di Vincent Van Gogh del 1890 e “Il quinto elemento” di Luc Besson” che prende a piene mani da “La colonna rotta” di Frida Kahlo. 

«L’arte è visionaria. L’arte è una bugia che ci fa realizzare la verità. L’artista deve sapere il modo con cui convincere gli altri della verità delle sue bugie. 
La trasformazione è come se fosse una traduzione dell’opera, una traduzione che poi diventa tradimento, certo. Ma è anche l’unico modo per rappresentare l’idea stessa. E allora nella storia, anche architettonica, questo passaggio di linguaggi e di contenuti è fondamentale, perché la storia è frutto di tanti palinsesti. Per me architettura e città è ricostruzione, di modelli, di caratteri. E la purezza, a volte, è fragile», conclude Latina, raccontando dell'intervento nell'Isola di Ortigia a Siracusa dove era collocata l'Acropoli della città. 

Sul fronte della conservazione storica, si sono aggiunti gli interventi di Giovanni Carbonara, professore emerito di restauro architettonico a La Sapienza e quello di Luigi De Falco, vicepresidente di Italia Nostra. 
«La connivenza di antico e nuovo è possibile!», interviene Carbonara. «Non c’è contrasto teorico di fondo, penso anche al tempio Duomo di Pozzuoli dove un edificio romano fu trasformato in cattedrale barocca, poi andata a fuoco, poi abbandonato, infine è tornato ad essere cattedrale. Il problema è quale progetto? Quale progettazione? In Italia, la conservazione dei centri storici come tessuto è una eccezionalità tutta nostra, ma necessaria nel tempo. Altra domanda: in quale direzione andare quando si mette mano? L’architetto si deve fare traduttore di istanze collettive, di valori corali. Io non credo che la posizione del restauro contemporaneo non sia orientato per l’immobilismo, alla mummificazione», racconta Giovanni Carbonara. «Attenzione però ai ragionamenti, bene hanno fatto le Sovrintendenze a difendere il patrimonio italiano, spesso il conservatorismo ha salvato pezzi di memoria stupefacente. Allora perché non conservare bene? Però bisogna riattivare un dialogo e sapere che le città lentamente evolvono. Però attenzione, diverso parlare di trasformazioni quando parliamo del teatro di Marcello rispetto alla Tate Gallery, parliamo di un salto di secoli. E poi siamo in mano alla sensibilità degli architetti, una sensibilità culturale che non è ovvia». 

Parliamo dei centri storici, dei borghi straordinari, dei luoghi unici. È necessario quindi un ragionamento quanto più ampio, collettivo e condiviso, ogni volta che si interviene, valutando il merito del progetto. 
«Venezia è il massimo del paradosso, ha l’antico che si respira fino agli ultimissimi esempi dell’arte e del progetto contemporaneo», dice Renata Codello, segretario generale della Fondazione Giorgio Cini che ha sede sull'isola di San Giorgio. «Quindi la domanda è: perché il progetto non è centrale? Ci sarebbero molte meno discussioni», si chiede la Codello. «Ma soprattutto mi chiedo perché c’è una visione così elitaria del progetto? Perché la necessità di archistar, come se fosse solo quello il mezzo per dare legittimità alla dimensione progettuale. Un’idea veicolata dagli accademici e dai committenti pubblici e privati, facendo una serie di scelte già scritte, creando delle articolate configurazioni di dubbia attualità progettuale. E poi – aggiunge – l’ultimo problema, ma il più importante, è quello dell’assunzione della responsabilità, di chi deve decidere. Le responsabilità che nessuno si vuole prendere, è molto più facile dire di no. Mi riferisco di chi ha ruoli istituzionali e che trincerandosi nel conservatorismo diventa paladino della cultura e della memoria, senza meriti. Ma devo dire che è molto più difficile smontare un progetto fatto bene, con un già alto livello di elaborazione progettuale», conclude. Insomma, la strada della negoziazione e del dialogo, l’unica strada. A monte. Per non rischiare uno scollamento con la comunità e con i soggetti in campo. 

Per Luigi De Falco la contrapposizione tra conservazione e modernismo è sbagliata. Bisognerebbe che lo Stato parlasse più di tutela dei centri storici, non un ingessamento. A questo punto dovrebbe parlare l’urbanistica. «Un argomento di cui poco si parla, perché, nel profondo dello spirito del Paese, è scarsa la consapevolezza, come anche la cultura e la sensibilità, sul ruolo di questi gioielli nel nostro contesto urbano. Bisogna mantenere un rigore nel rispetto delle città. Il ruolo delle Sovrintendenze è fondamentale, ma nel frattempo nel dibattito di questi mesi si è aperta l’altra falla per le modifiche al decreto 380, con la eccezionalità delle leggi regionali per il piano casa, per intervenire nei centri storici. Per questo oggi c’è bisogno di preservare i centri storici. Ricordarsi il ruolo sociale dell’architetto: un garante della storia». 

Si discute pure dei recenti dispositivi normativi, compreso l’ultimo Dl Semplificazioni che contiene due articoli che vanno in direzioni quasi opposte. Da una parte, in particolare nell’articolo 10, si afferma senza se e senza ma che per gli interventi nella città storica e consolidata, nel caso di demolizione e ricostruzione, si debba applicare il principio del “dov’era com’era”, indipendentemente da una valutazione preventiva del valore storico-testimoniale del singolo manufatto edilizio. Dall’altra, articolo 55bis, si consente la demolizione degli impianti sportivi storici, come quello di Firenze, capolavoro dell’architettura razionalista, in nome di supposti motivi di sicurezza e fruibilità, in deroga anche ad un eventuale vincolo dei Beni Culturali. Tra i professionisti che si devono confrontare con centri storici così belli da essere considerati "intoccabili", Pier Matteo Fagnoni presidente dell'Ordine degli architetti di Firenze, alle prese in questi giorni lo stadio del 1931 di Pierluigi Nervi, grande esempio di razionalismo italiano che rischia la sua tutela. L’esperienza del Maxxi, Museo delle arti del XXI secolo di Roma, è invece relazionata da Margherita Guccione. «Qualità del progetto, si deve partire da qui. Non è solo estetica, ma intrinseca c’è la capacità di interazione con il tessuto urbano. L’architettura è esito di un processo» Perché la sanatoria non è degli edifici, ma del tessuto urbano.

A parlare specificamente del caso Bologna, la sessione che chiude il seminario Città Come Cultura, vere e proprie "colonne" della discussione cittadina, come la presidente di Italia Nostra Jadranka Bentini e l'architetto Pier Luigi Cervellati che parla di città storica e non di centro. Insieme a loro Stefano Pantaleoni dell'Ordine degli architetti di Bologna e la progettista Roberta Fusari (ex assessore all’Urbanistica del Comune di Ferrara, coinvolta nel dialogo anche sulla questione di Palazzo dei Diamanti) che discutono di mix funzionale e «dell’importanza – specifica la Fusari - di chi vive nei centri storici di poter vivere allo stesso modo di chi vive in una villetta performante in periferia, il diritto alla città». Ognuno con le sue ragioni, tornando però alla questione di contenuto e concettuale, non da tifoseria. È una grossa responsabilità per le istituzioni che il dibattito non cada e non si abbassi al coro da stadio, perché non tutti i partecipanti alla polemica hanno le stesse competenze e si rischia una banalizzazione di temi cruciali. 

 

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© RIPRODUZIONE RISERVATA

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