21-01-2022 Chiara Brivio 9 minuti

Lesley Lokko: La decolonizzazione un dono per l’architettura

Intervista alla curatrice della Biennale di Venezia: il ruolo dell’Africa nel mondo, il “povero” vocabolario dell’architettura contemporanea e il futuro dell'università

Capelli raccolti, grandi occhiali da vista, modi gentili e una tazza di te. Lesley Lokko, la prossima curatrice della Biennale di architettura di Venezia del 2023, si presenta così all’intervista con thebrief (un’intervista che non potrà vertere sui temi della manifestazione lagunare, per esplicita richiesta dei vertici della kermesse).

Discendenza ghanese e scozzese, architetta, docente, ma anche scrittrice di successo (in Italia i suoi romanzi sono pubblicati da Mondadori), la Lokko vanta un curriculum di tutto rispetto: laurea in architettura alla Bartlett School of Architecture, dottorato alla London University, è stata tra i fondatori della prima scuola post-laurea di architettura nel continente africano, la Graduate School of Architecture (Gsa) di Johannesburg. Dopo un breve incarico alla Bernard and Anne Spitzer School of Architecture di New York, dal quale si è dimessa in polemica con la facoltà, nel 2020 ha fondato, anche con il coinvolgimento di David Adjaye (vincitore della medaglia d’oro del Riba lo scorso anno), l’African Futures Institute (Afi) ad Accra, in Ghana. Una scuola particolare, che, come racconta Lokko «è divisa in due. Da una parte gli eventi, le lectio e le conferenze pubbliche, già avviata, e sta funzionando molto bene. Contemporaneamente, stiamo facendo domanda per poter avere la licenza per l’insegnamento, che ci permetterà di iniziare con i corsi». Ma la nomina alla guida della Biennale, giunta all’improvviso «è un’opportunità incredibile per me. E affinché io possa concentrarmi su questo incarico, abbiamo deciso di posporre l’inizio del programma accademico dell’Afi al 2024».


Da sempre nel mondo accademico, la sua ricerca si concentra sull’architettura come disciplina, più che come pratica, e nella sua commistione con altre scienze, come la sociologia o gli studi post-coloniali.


Il suo libro, White Papers, Black Marks: Architecture, Race, Culture, pubblicato nel 2000, raccoglie una serie di articoli proprio sulla relazione tra architettura, questioni razziali e relazioni di potere. Temi che, insieme alla creatività, alle nuove generazioni e al ruolo dell’Africa, potrebbero essere al centro anche della sua curatela.

Perché secondo lei è importante istituire delle scuole post-laurea in architettura in Africa? Possono diventare nuovi centri di creazione di sapere e trattenere i giovani nel Continente?

Ci sono due modi di rispondere a questa domanda. Quando mi sono trasferita a Johannesburg nel 2014, come professore associato, erano appena iniziate le proteste contro la statua di Cecil Rhodes (Rhodes, industriale inglese, rappresenta il simbolo del colonialismo bianco in Sudafrica ndr), e poi nel 2016 ci sono state quelle contro l’aumento delle tasse universitarie. Queste manifestazioni hanno avuto un forte impatto sull’istruzione universitaria, e hanno costituito un momentum quasi rivoluzionario nel Paese. Le proteste avevano anche aperto uno spazio per la discussione sulla decolonizzazione in generale e su quella del curriculum universitario. È stato chiaro fin da subito che se si voleva fare qualcosa di radicale, il Sudafrica era l’unico luogo in cui poteva essere realizzato.

E sul perché di un livello post-laurea, quando si ha a che fare con delle questioni complesse ed emotive come l’identità, le persone che guidano gli studenti devono avere certo livello di maturità. E ho notato che gli studenti al livello della triennale non sono sufficientemente maturi per affrontare temi come il genere, le relazioni di potere, le questioni razziali con tutto il loro carico emotivo. Non è proprio come insegnare alla gente a camminare, e nemmeno a correre, ma diciamo che è come insegnare a camminare in modo più complesso. L’idea di fondare una scuola post-laurea in Africa è comunque qualcosa che mi porto dietro da quasi 20 anni.

Lesley Lokko. Ph. ©Debra Hurford-Brown

Lei è stata uno dei primi a parlare di genere, identità e potere nell’architettura, che cosa significa per lei “decolonizzare” questa disciplina? 

Penso che questioni come queste, anche se in astratto riguardano l’ambito accademico, sono vissute anche concretamente attraverso l’esperienza del corpo. Per esempio, io faccio esperienza del mondo in quanto donna, africana, con un’eredità multiculturale. Questa è la struttura attraverso la quale interpreto il mondo. Quando ho iniziato a studiare architettura, una delle più grandi sorprese è stato scoprire che ci si aspettava che io lasciassi tutto questo da parte, se volevo comprendere questa disciplina. Il problema non era la mia identità, ma che c’era qualcosa che mancava nella materia, era incompleta. Ed è per questo che, incluso nella mia attività di scrittrice, cerco di colmare questo divario tra visione del mondo e teoria. E l’ho ripetuto molte volte, io considero la decolonizzazione un dono per l’architettura, perché significa aggiungere qualcosa, non sottrarre. Va colmato il divario, ma l’impeto viene sempre dalla generosità.

Se le chiedessimo di indicarci qualche progetto dell’architettura contemporanea che per lei meglio rappresenta l’”Architettura”?

Questa è una domanda difficile, perché i progetti che reputo tra i più interessanti degli ultimi dieci anni, non sono ancora stati realizzati. Senza dubbio ci sono degli spazi costruiti che mi emozionano sotto molti aspetti, ma sarebbe impossibile anche solo nominarne qualcuno. Certo, come ogni architetto, quando sono andata al Barcelona Pavillion ho avuto un’esperienza quasi mistica! Ciò che però mi ha quasi sopraffatta, per la creatività, è il lavoro dei miei studenti negli ultimi 4 o 5 anni. Per questo sono ottimista riguardo al futuro dell’architettura, perché ho potuto toccare con mano l’immaginazione di quest’ultima generazione di ragazzi africani, non solo di colore, ma anche indiani, e bianchi.

E un modello di città del futuro, ce lo indica?

Uno degli aspetti positivi di aver vissuto in così tanti paesi del mondo, è che personalmente non penso che esista qualcosa chiamato “città”. A livello linguistico, il modo in cui descriviamo l’urbanità è sorprendentemente uniforme, ma poi ciascuno di noi risponde diversamente all’ambiente del costruito. La pandemia è un esempio perfetto. Quando è scoppiata la crisi sanitaria mi trovavo a New York, poi mi sono a trasferita a Londra, a Edimburgo ed infine ad Accra. È come aver vissuto quattro esperienze diverse, che mi hanno fatto capire che la città come un luogo fisico ha una sua cultura, ma il modo in cui gli abitanti rispondono a quel linguaggio, è diverso in ogni caso. Ad Accra, per esempio, la crisi sanitaria è evidente solo in quegli spazi che io definisco dell’”idea occidentale di città”, quindi il supermercato, le banche, ma sicuramente non al mercato. L’isteria collettiva legata al Covid si manifesta solo quando vai all’aeroporto.

Una delle grandi sfide che attendono le prossime 4 o 5 generazioni di noi professionisti dell’ambiente del costruito, sarà quella di trovare, da una parte, un linguaggio universale per descrivere l’urbano, e dall’altra, un linguaggio che sia specifico per ogni sito. Non ha senso parlare un linguaggio universale, se poi nessuno capisce quello che dici in posti diversi. Per me il linguaggio è fondamentale e penso che al momento, il vocabolario dell’architettura sia veramente povero.

C’è un esempio, secondo lei, di città africana proiettata verso il futuro?

Penso che anche solo la nozione di “africano” sia problematica, perché le differenze tra Abidjan e Accra sono tali e quali quelle tra Londra e Il Cairo. La situazione è molto complessa e il campo di ricerca non può essere ridotto a termini assoluti. Quello che tuttavia trovo molto ottimista e produttivo è questo gioco tra nord e sud, tra est e ovest, anche con la Guerra fredda, perché in questo gioco della storia sono emerse delle combinazioni inaspettate che possono essere molto stimolanti per l’architettura. Se la situazione in Africa oggi fosse di una complessità creativa – non problematica, perché per me il caos è sempre uno spazio produttivo – forse potrebbero emergere delle nuove combinazioni disciplinari che forzerebbe gli architetti a diventare dei professionisti diversi. Lo vediamo anche nel rapporto tra architettura e linguaggio, che trovavo molto frustrante in Sudafrica. Per fare un esempio, subito dopo la fine formale dell’apartheid, la maggior parte delle scuole di architettura si sono precipitate ad utilizzare il paradigma dei processi partecipativi sostenibili. Invece che progettare centri commerciali o case di lusso, sono andati nelle township (i quartieri segregati ndr) a costruire, per esempio, delle latrine. Ma se tu avessi chiesto al 90% di quegli studenti se parlassero la lingua delle persone a cui dicevano che avrebbero cambiato la vita, ti avrebbero detto di no. Una situazione dove gli architetti si erano doppiamente estraniati. È in questo contesto che mi chiedo quale possa essere l’autenticità del lavoro che si produce, perché non si è sullo stesso piano da uguali, non c’è nessuna relazione di reciprocità nonostante si parli di processi partecipativi. L’unica cosa sarebbe riconoscere, rispettare e pensare alle cose in modo diverso, anche se so che suona come un paradosso.

È qui che l’Africa mostra il suo lato più ottimista, perché in un certo senso la sua complessità creativa richiede delle risposte altrettanto creative. Per questo, dopo oltre dieci anni che insegno a studenti del Continente, credo che la loro capacità di cogliere questa complessità sia incredibile.

Lesley Lokko ©Murdo Macleod

Quanto è importante, in questo momento storico, comunicare l’architettura?

Di nuovo, per me è molto frustrante che questo “linguaggio dell’architettura” sia fondamentalmente impenetrabile. Ho detto spesso che questa impenetrabilità è una conseguenza di un’insicurezza di fondo, ma dubito che gli architetti lo ammetteranno mai. Tuttavia, considero l’architettura una disciplina ibrida, con una sua identità incredibilmente fluida, anche se la sua spinta va in direzione opposta alla sua fluidità. Infatti, l’architettura vuole radicarsi, costruire, rendere solide e visibili le cose, quindi c’è una profonda tensione tra la psiche della disciplina e i risultati che produce. Per questo ritorno sempre a intellettuali come Richard Sennett, perché è un pensatore incredibilmente chiaro ma anche incredibilmente profondo. La sua capacità di comunicare la complessità non riguarda la semplicità del linguaggio, ma la chiarezza del suo pensiero. Noi, nelle scuole di architettura, non siamo capaci di insegnare ai ragazzi come tradurla in questo modo.

E come si può favorire il cambiamento?

Questo è il punto. Le istituzioni universitarie sono almeno dieci anni che affermano di voler cambiare, ma quando poi cerchi di farlo, non riesci. Ora è tempo di passare dalle parole ai fatti. Non è più una questione di avere 3 o 4 professori di colore, 2 donne, e poi metterli sulla copertina di una rivista, è necessario un cambiamento profondo e strutturale, anche se è un’idea spaventosa per l’accademia. L’istruzione universitaria in questo momento è sotto attacco, e per buone ragioni, ma la paura è ‘da cosa potrà essere sostituita’? L’accademia protegge e produce conoscenza, il suo ruolo è quello; quindi, è molto complicato capire fino a che punto ti puoi spingere con il cambiamento.

In posti come Accra, e posso parlare solo per la mia esperienza in Ghana, sicuramente c’è molto meno da perdere, e questo rende le persone più coraggiose, ma dall’altra c’è anche molto sul piatto. Se, come africani, non saremo in grado di rivedere la nostra relazione con il resto del mondo, non guideremo mai la conversazione, saremo dei gregari.
Parte dell’ambizione che caratterizza l’Afi è proprio questa, cioè che oggi non è più sufficiente essere dei convitati al tavolo, noi vogliamo dettare l’agenda, forse non sempre, ma qualche volta sì.

In copertina: Lesley Lokko. Ph. ©Festus Jackson-Davis

© RIPRODUZIONE RISERVATA
Chiara Brivio
Articoli Correlati
  • Confindustria: “Crescita boom nel 2023 trainata dalle abitazioni”

  • Innovazione e digitalizzazione per una primavera immobiliare

  • Iperturismo e centri storici. Serve una proposta nazionale

  • Innovatore, eclettico e sperimentale. È morto Italo Rota