18-01-2022 Paola Pierotti 6 minuti

Dalla gavetta con Cino Zucchi al premio “Architetto italiano dell’anno”, 20 anni di Ifdesign

Franco Tagliabue Volontè: il cliente al centro, attenzione maniacale e cura del progetto, dedizione continua

L’architetto italiano è un artigiano, innanzitutto, abituato a lavorare a stretto contatto con il cliente, attento a tutte le questioni, non tralascia nulla. È questa la nostra tradizione sin dai tempi del dopoguerra: sarebbe un errore snaturare questo profilo che, se vogliamo, è quello che rappresenta tutta l’area mediterranea, nel senso del nostro Paese, del Portogallo e della Spagna. Esiste una distanza enorme in termini di qualità, una sorta di classifica rovesciata, tra gli studi che mirano al fatturato e quelli che mettono il cliente e le sue esigenze davanti a tutto. Il lavoro seriale e veloce è uno svantaggio economico per la committenza, innanzitutto». Franco Tagliabue Volontè, partner con Ida Origgi di Ifdesign descrive così il ruolo dell’architetto, e di quello italiano nello specifico, in una chiacchierata con thebrief a valle dell’assegnazione del premio “Architetto italiano dell’anno” un riconoscimento da parte del Cnappc che rappresenta tutto l’universo degli architetti italiani che, in numero pari a circa 150mila professionisti, è il più consistente d’Europa, quasi un terzo degli architetti del Continente.

La vostra dimensione rappresenta un termine di riferimento per la maggior parte di studi italiani. Un limite per progetti di grandi dimensioni?

Siamo in grado di gestire anche progetti molto grandi con un livello di attenzione quasi maniacale. L’altissima sperimentazione che distingue il nostro lavoro dipende anche dalla volontà di spingere sull’idea che ogni atto progettuale aiuta il cliente a trovare una risposta più adeguata in termini economici, in termini spaziali (e se vogliamo anche questa adeguatezza rappresenta un risparmio), in termini di immagine. Con questa attenzione siamo in grado di dare qualità superiore con costi di costruzione più bassi: sembra un ossimoro, ma ce la facciamo. Il nostro non è uno studio enorme, ma nell’ultimo lavoro che andremo a costruire tra poco, un grande complesso scolastico a Palermo, abbiamo prodotto in poco tempo oltre 500 tavole esecutive e di dettaglio.

 

Il vostro percorso professionale per tappe?

Nel 2002 abbiamo fondato lo studio, anche se per i primi 2 anni Ida ha seguito lo sviluppo retail di una grande azienda tessile, aprendo circa 25 negozi in Italia, e lo ha fatto come unico architetto responsabile dell’azienda, comprendendo le dinamiche commerciali dall’interno: una esperienza impagabile per la gestione di lavori di questo genere. È l’unico momento in cui abbiamo lavorato separati. Dopo l’esperienza con Cino Zucchi siamo partiti con progetti di spazi pubblici in Brianza e poi il Muro di Sormano. A seguire, edifici residenziali e collettivi, come la Wigglyhouse e Zona K, tra gli altri. L’esperienza del Cluster Cereali e Tuberi di Expo 2015 ci ha proiettato su temi più importanti per dimensione.

Che ruolo ha avuto un maestro come Cino Zucchi?

Abbiamo iniziato con lui, sia io che Ida, e siamo usciti dopo 6-7 anni. È stato determinante per noi, perchè lo studio era ancora piccolo (4 o 5 persone), per cui gestivamo in prima persona tutti i progetti in tutte le fasi. Cino era appena quarantenne e tutto si scopriva insieme: non aveva ancora una grande esperienza di cantiere ma da sempre dotato di un’intelligenza ideativa e costruttiva stupefacente, oltre alla cultura smisurata e all’attitudine al progetto urbano che tutti conoscono. Ci ha insegnato tantissimo, non smetteremo mai di ringraziarlo, anche se i ritmi erano molto serrati. In generale, tra l’altro, non capisco quando la gente si lamenta per il troppo lavoro, anche se lo fa in studi importanti: in qualsiasi disciplina, per raggiungere il massimo livello, bisogna dedicarsi senza alcun limite. È sempre più quello che si impara dei sacrifici che si fanno.

Abbiamo lavorato praticamente su tutte le opere di quegli anni, che lo hanno, giustamente, proiettato ai vertici del panorama internazionale. Sicuramente quello della Giudecca a Venezia è stato il progetto più importante, accompagnato dall’inizio fino al cantiere, poi spazi pubblici e industriali e molto altro ancora.

C’è un’opera che riconoscete che vi ha fatto fare il salto?

Forse due. Con l’opera di esordio, Piazza Nera Piazza Bianca (a Giussano, sempre in Lombardia, ndr) abbiamo vinto la Honourable Mention allo European Prize for Public Space. Ancora oggi rimane l’unico progetto italiano mai premiato in quello che è il riconoscimento più importante sugli spazi aperti.

Poi il centro civico Noivoiloro ci ha fatti conoscere a livello internazionale su grande scala ed è anche il progetto a cui siamo più affezionati.

La vostra è soprattutto una committenza “social”. Per caso o frutto di una strategia mirata?

Sono anche i casi della vita che determinano le strategie. Il premio europeo dello spazio pubblico ha fatto sì che per i primi anni ci chiamassero solo per quel tipo di lavori e la scuola di teatro Zona K con Noivoiloro, o il padiglione ad Expo ci hanno resi specializzati in edifici collettivi. Però è chiaro che nel ruolo sociale ci riconosciamo particolarmente. Non solo per l’esperienza maturata, forse ci si addice anche come cultura personale.

Quale bilancio quindi dell’attività professionale svolta da Ifdesign?

Abbiamo scelto sempre di contenere le dimensioni dello studio e così abbiamo controllato meglio ciò che facevamo. Dopo 20 anni di attività, se ci guardiamo indietro, i progetti non sono pochi e riguardano un po’ tutti i tipi di funzioni. Forse quello che ci disturba di più è l’energia che tutti gli architetti del nostro Paese, non solo noi, disperdono nei molti concorsi che sono poco seri. Quante belle idee rimangono sulla carta e quanti progetti scadenti vengono realizzati, chissà per quale motivo?

Aspettative per il post-premio del Cnappc?

Innanzitutto, dovremo garantire di sostenere questa grande responsabilità che ci hanno affidato. Rappresentare gli architetti italiani è un grande onore ma dobbiamo dimostrare di meritarlo ogni giorno.

Poi vorremo riuscire a mettere il nostro interesse per le persone dentro qualche progetto residenziale di rilievo. Abbiamo maturato, non solo nella professione ma anche all’interno delle università in cui insegno, una grande esperienza e sperimentazione tipologica che forse potrebbe dare un contributo importante ad alcune operazioni. Convincere i grandi investitori che esiste un’alternativa ai progetti un po’ ripetitivi che contraddistinguono le operazioni residenziali oggi, sarebbe una bella sfida. Ormai si costruiscono città buone per tutti, ma anche per nessuno. Funzionano commercialmente (non sempre) ma non hanno abitanti veri.

Lavorate soprattutto nella vostra area geografica. Cos’è e cosa offre, oggi, il mercato milanese/lombardo dal tuo punto di vista?

Apparentemente più occasioni, ma ogni luogo è buono per un progetto e poi il Pnrr potrebbe spostare un poco gli equilibri nel prossimo futuro.

In copertina: Ida Origgi e Franco Tagliabue Volontè, fondatori di If design

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Paola Pierotti
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