21-07-2021 Chiara Brivio 3 minuti

L’export italiano vola nel post-pandemia, ma la Cina insidia il made in Italy

Presentato il rapporto 2021 “Esportare la Dolce Vita” del Centro Studi Confindustria. Trainano le 3 ’F’, ma la mancanza di competenze digitali nelle Pmi penalizza l’e-commerce

«Il “bello e ben fatto” è l’espressione più riconoscibile del made in italy, anche a livello culturale, e questi 135 miliardi rappresentano anche un volano per il Paese»
Luigi Di Maio

Centotrentacinque miliardi di euro: è quanto vale l’export italiano del “bello e ben fatto” (bbf), ossia l’eccellenza manifatturiera del made in Italy nel mondo. E 82 sono i miliardi di euro di potenziale crescita sul mercato degli stessi prodotti. È questo quando emerge dal rapporto 2021 Esportare la Dolce Vita, realizzato dal Centro Studi Confindustria, in collaborazione con Unicredit e con il contributo di Sace, Netcomm e Fondazione Manlio Masi – Osservatorio nazionale per l’Area Affari Internazionali e gli scambi. Trasversali i prodotti esportati, anche se sono le 3 ‘F’ – fashion, food e furniture (moda, cubo e arredamento) – a fare da traino per tutto il settore.


Una fotografia che, nonostante il contraccolpo dato dalla crisi pandemica nel 2020, vede gran parte delle esportazioni dirigersi ancora verso i mercati consolidati, per un totale 114 miliardi di euro, mentre sono 20 quelli destinati a quelli emergenti.


Mercati che, tuttavia, forti di una classe media benestante in costante crescita – si prevede che saranno 70 milioni i nuovi ricchi in Cina nei prossimi 5 anni, 30 milioni in India (anche se rimane l’incognita della concentrazione del reddito) –, rappresentano un enorme potenziale per le aziende nostrane nei prossimi anni. Consumatori presenti e futuri che vogliono acquistare non solo un prodotto di qualità, ma uno stile di vita come quello italiano.

«Il “bello e ben fatto” è l’espressione più riconoscibile del made in italy, anche a livello culturale – ha detto il ministro degli esteri Luigi Di Maio, intervenuto alla presentazione della ricerca – e questi 135 miliardi rappresentano anche un volano per il Paese». Illustrando le diverse misure messe in campo dal suo dicastero, insieme all’agenzia Sace (che fa capo a Cassa depositi e prestiti), a sostegno delle piccole e medie imprese durante il periodo della pandemia, tra le quali risorse economiche, formazione in campo digitale, lotta alla contraffazione, nuovi trattati di libero scambio, ha poi illustrato alcuni dati: «La crescita dell’export nel primo quadrimestre del 2021 è stata del +23,9% rispetto al 2020. Solo nei primi 5 mesi del 2021 si sono già superati i volumi dello stesso periodo del 2019, che era stato un anno record per le esportazioni italiane, con 6,5 miliardi di euro in più». Dati che evidenziano la ripresa del settore, e quindi anche della produzione italiana di prodotti d’eccellenza, come l’abbigliamento, l’alimentare, l’arredamento, l’automotive, ma anche la cosmetica, la nautica e la ceramica, che come bbf da soli rappresentano quasi un terzo di tutte le esportazioni italiane.


Fari puntanti sulla Cina, che seppur rientri tra i paesi con il maggiore potenziale di export (3,9 miliardi di euro), è anche uno dei nostri principali competitor, soprattutto sui mercati asiatici, grazie al lavoro di upgrading qualitativo sui beni prodotti portato avanti negli ultimi anni.


Se l’export è uno dei fiori all’occhiello della nostra economia, non si può dire lo stesso delle competenze delle Pmi italiane nel campo dell’innovazione digitale. Nonostante l’impennata durante la pandemia e i successivi lockdown, l’Italia non figura tra i primi 10 paesi del mondo come volumi di acquisto online, con soli 13 miliardi di euro nel b2c. Un altro punto a sfavore nei confronti della Cina, prima nazione a livello internazionale con un fatturato di oltre 670 miliardi di dollari nel 2019, e che rallenta lo sviluppo dell’e-commerce e riduce le potenzialità delle imprese italiane nel commercio b2c all’estero.

Nel corso dell’evento c’è stato spazio anche per una chiosa del ministro Di Maio sul nuovo, ambizioso piano sul clima presentato dalla Commissione europea nei giorni scorsi per portare a complimento il Green Deal – il cosiddetto “Fit for 55”, che punta a ridurre le emissioni di Co2 del 55% entro il 2030 e ad arrivare alla neutralità climatica entro il 2050 – a commento del quale ha detto, «Per attuare una vera transizione ecologica serve una vera conversione delle imprese, e per questo siamo in campo per far comprendere che per questo ci vorrà tempo. Come Europa produciamo solo il 7% delle emissioni totale, bisognerà quindi coinvolgere anche Usa, Cina e India in questo programma». Un monito insomma, che i sacrifici richiesti andranno diluiti nel tempo.

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Chiara Brivio
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