01-02-2022 Paola Pierotti 9 minuti

Università-Fuksas e sperimentazioni continue. Giammetta Architects: non solo case ma concept ibridi

Lo studio romano racconta i suoi progetti: architettura contemporanea grazie alla sostituzione edilizia

Fare architettura significa rispondere ad una domanda che viene posta da soggetti diversi che vogliono un luogo nel quale vivere, lavorare, studiare, ricercare, vedere.
Gianluigi Giammetta

Luigi Prestinenza Puglisi periodicamente ricorda che “le due uniche università italiane che hanno funzionato sono gli studi di Piano e Fuksas”. «Di fatto la sua riflessione sottolinea che in Italia da sempre esiste un forte scollamento tra università e professione. Quando siamo usciti noi dall’università negli anni ‘90 le fonti di informazione sull’architettura erano Casabella e Domus che erano lontane mille anni rispetto a quello che succedeva all’estero, soprattutto in Francia dove François Mitterrand aveva messo in atto una nuova visione preludio di un grande cambiamento nel mondo dell’architettura, il cosiddetto “Grand Paris”. Riviste come Architecture d'aujourd'hui e Architecture Review erano bandite all’interno dei dipartimenti e per noi entrare nello studio di Massimiliano e Doriana è stato un’immersione nel mondo dell’architettura reale, costruita, vissuta con le sue problematiche e i suoi compromessi. In quei due anni abbiamo capito cosa volesse dire veramente “diventare architetti”». Gianluigi Giammetta, partner dello studio romano con il fratello Marco, Giammetta Architects, racconta a thebrief il forte legame con gli architetti Fuksas: «Abbiamo sempre mantenuto un rapporto di vicinanza con Massimiliano e Doriana, e spesso, in estate, ci vediamo a Pantelleria per parlare del presente e del futuro. Per noi loro sono i “maestri” da ascoltare».

Ti sei portato in eredità un metodo? Una visione? Cos’altro?
Al “metodo” preferiamo la “visione”. Abbiamo maturato la capacità di immaginare e mettere in pratica i nostri progetti rispondendo a richieste reali e concrete. Lo abbiamo fatto in Europa e in Italia, dove le opportunità si trovano nel privato, unico interlocutore in grado di mettere in atto processi produttivi edilizi.

Il committente pubblico?
È assente, non esiste un programma di interventi capace di qualificare e trasformare le nostre città; manca una visione lungimirante che possa riattivare meccanismi virtuosi e riportare l’architettura al centro del dibattito sulla città del futuro.

Come è iniziato il vostro percorso professionale?
Siamo partiti con la nostra attività nel 1996, dopo l’esperienza all’interno dello studio Fuksas. Il nostro primo incarico significativo è stato la realizzazione della nuova sede Enpacl a Roma, un edificio di circa 8mila mq dove la committenza aveva deciso di rompere gli schemi distributivi del classico “luogo pubblico”. Niente più separazioni, grandi open space, che stimolavano nuove dinamiche lavorative. Trasparenza, confronto, interazione e condivisione, concetti che hanno trovato ampio spazio in un articolo della rivista Next di Domenico de Masi, che ne amplificò il successo mediatico.

Quanti sono i progetti firmati Giammetta Architects?
Tanti, veramente tanti. Molto significativa è soprattutto la resilienza delle nostre anime che credono e combattono giornalmente per veicolare il valore dell’architettura in Italia.
 

Con alcuni colleghi romani, diversi anni fa avete tentato un’alleanza… per fare squadra, per comunicare compatti una nuova cultura del progetto. Qual era l’intento?
Nel 2008 abbiamo partecipato alla Biennale di Architettura di Venezia di Aaron Betsky con un progetto meraviglioso che si chiamava “Uneternalcity”, 25 anni dopo Roma Interrotta. Eravamo 12 Studi di cui 8 romani e 4 internazionali, tutti insieme per esporre una visione sul futuro sviluppo della Città Eterna. È stata una occasione per condividere idee e pensieri, ma soprattutto per maturare la consapevolezza che fare sistema sarebbe stato l’unico modo per fronteggiare la forte competitività delle altre realtà internazionali. Il gruppo Super8 era la risposta romana agli ormai già formati gruppi Mad, Big… che iniziavano ad affacciarsi all’Europa e nel mondo con una nuova visione imprenditoriale dell’architettura.

Qualcosa non ha funzionato?
La difficoltà di liberarsi dall’individualità dei singoli gruppi ha fermato il processo visto dalla maggior parte degli interlocutori come una perdita di identità. Forse avremmo dovuto essere di meno o forse non eravamo veramente pronti.

Giammetta Architects è uno studio che lega il proprio nome all’abitare. Alla “casa”. E di casa in casa ha fatto della sua cifra un marchio di qualità. Generalmente si pensa che la residenza sia un tema per una taglia di studio medio-piccolo. Voi siete riusciti a “industrializzare” un processo, facendone anche il vostro core-business. Con quale ricetta?
Crediamo che tutta l’architettura in generale sia la costruzione di una casa, la casa di un uomo, dell’arte, del lavoro, dell’industria, la casa della gente, anzi è proprio il concetto di “casa” che dobbiamo approfondire per fare in modo che l’architettura sia più vicina all’uomo.

Fare architettura significa rispondere ad una domanda che viene posta da soggetti diversi che vogliono un luogo nel quale vivere, lavorare, studiare, ricercare, vedere. L’ascolto è la più importante caratteristica che un architetto deve avere e la casa è il tema dove questa relazione diventa più intima.

Devi tradurre un’esigenza in architettura, senza sovrapporti, ma scrivendo una storia con le parole che il committente ti mette a disposizione.

Non solo case. White Impact è un progetto di rigenerazione di un’area industriale. Dove siamo? Quale il cliente? Quale la sfida? Importo dell’opera e scelte tecnologiche?

Il progetto è inserito in un’area generata artificialmente dallo sdoppiamento del raccordo anulare che di fatto la distacca dall’ambito periferico trasformandolo in un’isola a sé. Il programma richiesto dal committente richiedeva la realizzazione di un capannone per attività commerciali che potesse richiamare, attraverso la sua morfologia, l’attenzione dei milioni di automobilisti che 365 giorni l’anno percorrono questa importante arteria stradale. Il piano funzionale prevedeva un piano interrato di 1.400 mq, destinato a garage e magazzino, un piano terra di 1.100 mq di esposizione e altri 260 di servizi e spazi accessori, un piano rialzato di 360 mq per gli uffici.

White Impact è il tentativo di trasformare un contenitore in contenuto, uno spazio in luogo, per innescare un processo di riqualificazione di un’area industriale della città Roma. La biforcazione del raccordo anulare, crea qui un lembo di area edificata, visibile da ambo le carreggiate che la sfiorano e la definiscono. Il bianco, distacca visivamente il nuovo edificio dai fabbricati industriali limitrofi, amplificando la sua energia. White impact è insieme forma, colore, contenuto, assorbe la luce del sole attraverso le fessure che segnano il suo involucro, e la restituisce all’ambiente attraverso la sua pelle riflettente.

Tra le vostre novità c’è MoS. Mall of sport, un concept che lega sport e shopping. Di cosa si tratta?

Partiamo dalla constatazione che è radicale la trasformazione in atto nei centri commerciali. Più che una crisi, questo trend sta vivendo un periodo di sfidante dinamismo. Anche grazie alle minacce e alle opportunità offerte dal web e dall’e-commerce. Non più semplici contenitori di negozi, le strutture di successo diventano vere e proprie destination.

L’offerta di intrattenimento e servizi, oltre alla componente ristorazione sempre più strategica, sono parti integranti dell’evoluzione economica, ma anche sociale, delle cittadelle dello shopping e dell’entertainment. L’altro aspetto chiave è il ruolo che queste realtà potrebbero giocare nella rivitalizzazione di aree dismesse.

Il Mall of sport si impadronisce di questa tendenza ponendosi come obbiettivo primario quello di utilizzare l’architettura come strumento per riqualificare l’immagine di questi nuovi luoghi urbani in grado di rianimare spazi verdi senza qualità e ricucire settori della città. Luoghi belli, puliti e sicuri, dove ci si incontra, si fanno esperienze e si sceglie di passare del tempo praticando sport.

Gli spazi si potranno adattare per poter stimolare questo dialogo basato su tre concetti fondamentali: sport experience, engagement e hospitality.

Trasformare non significa solo cambiare le meccaniche di promozione e vendita del prodotto, ma intervenire con un’architettura di valore che possa riqualificare l’immagine di questi oggetti architettonici, spesso invadenti e poco sostenibili. Il nostro committente è un importante sviluppatore italiano, che sta valutando la fattibilità economica e gli spazi da impegnare sul territorio italiano.

Altri progetti di rigenerazione urbana in corso a Roma? 

Stiamo lavorando su un intervento di demolizione e ricostruzione, con mantenimento integrale delle facciate, di un edificio a via Boezio, che diventerà la sede istituzionale di una grande azienda del settore ospedaliero.

Insieme all’architetto Antonella De Giusti stiamo dando inizio alla riqualificazione di un’area in zona Tiburtina, all’interno dello Sdo (Sistema direzionale orientale), che prevede un altro intervento di sostituzione edilizia, con accorpamento della cubatura, di una serie di manufatti che daranno vita ad una Rsa e ad alcune cellule abitative.

Stiamo inoltre procedendo alla demolizione e ricostruzione di due vecchi edifici rurali, in zona Trigoria, che diventeranno due grandi ville private, e alla rigenerazione di un fabbricato uffici a ridosso del fosso della crescenza in un’area industriale sulla via Flaminia.

E per finire due interventi di recupero e trasformazione di edifici storici da trasformare in hotel.

Sul tuo profilo social hai raccontato Expo Dubai. Una tua riflessione, sotto la lente dell’architettura? 

Questo in corso è forse uno dei più coerenti che ho visto non solo nei contenuti, ma nell’impostazione dei padiglioni concepiti secondo un linguaggio universale da Expo, senza visibili possibilità di trasformazione e riutilizzo, viste anche le trasformazioni avvenute negli ultimi due anni (su thebrief anche il racconto di Expo con la voce di Matteo Gatto). Mi sono piaciuti gli aspetti esperienziali e l’uso della tecnologia che tentava di rendere sempre più immersive le esperienze.

Non mi è piaciuto il padiglione Italia: un catalogo didascalico di soluzioni che nel tentativo di comunicare l’idea di bellezza contemporanea italiana, cade nella banalità formale. Mal realizzato, strutture sovradimensionate, scafi di barche che si vedono solo all’esterno da un elicottero e le nudità nascoste del David di Michelangelo, simbolo di rinuncia alla capacità di produrre la bellezza, che accompagna da sempre la nostra storia.

Come sta oggi in generale l’architettura italiana, dal tuo punto di vista? 

Molti sono i bravi architetti italiani, pochi sono quelli che emergono e sviluppano progetti importanti. Pochissimi quelli che si impongono all’estero. Ci piacerebbe credere ai concorsi, ma in Italia sono pochissimi e pochissime le possibilità di vincerli, quasi per tutti. In Italia bisogna tornare a immaginare il futuro attraverso l’architettura. Scontato dire che bisogna fare una legge sull’architettura, altrettanto scontato dire che bisogna creare occasioni. Il vero problema è che non esiste una cultura dell’architettura e l’architetto deve tornare a ricoprire un ruolo chiave per lo sviluppo di strategie utili alla trasformazione sostenibile delle nostre meravigliose città.

In copertina: gli architetti Gianluigi e Marco Giammetta

© RIPRODUZIONE RISERVATA
Paola Pierotti
Articoli Correlati
  • Verso un nuovo paradigma: misurare gli impatti oltre i numeri della finanza

  • I Paesi Bassi nel 2100 secondo Mvrdv: un territorio sott’acqua

  • Turismo e turisti, cercasi nuovi modelli per l’ospitalità

  • Il costruito al bivio: idee cercasi dopo il Superbonus