09-06-2014 Paola Pierotti 3 minuti

Crimson per A Clockwork Jerusalem: “un racconto per immagini, per muovere emozione”

Intervista a Wouter Vanstiphout (Crimson), studio olandese co-curatore del padiglione britannico

"Trovo molto interessante studiare gli effetti del modernismo sulla comunità, nel bene e nel male, e mi vengono in mente come riferimento alcuni film come la Dolce Vita, la più recente Grande Bellezza ma anche Gomorra. Si potrebbe fare un A Clockwork Jerusalem anche per l’Italia, per raccontare come è stato rappresentato il modernismo nella cultura popolare"

Wouter Vanstiphout

Crimson Architectural Historians è un team di professionisti con base a Rotterdam. I soci sono Ewout Dorman, Annuska Pronkhorst, Michelle Provoost, Simone Rots, Wouter Vanstiphout e Cassandra Wilkins. A partire dal 1994 quando Crimson è diventato parte del gruppo di progettazione del ’Leidse Rijn’ a Utrecht, l’ufficio ha sviluppato un programma di attività interdisciplinari che ha come comune denominatore la città contemporanea. Crimson progetta per la città, fa ricerca, scrive testi e libri, la racconta nelle mostre e nelle opere d’arte, tiene lezioni all’università, dà suggerimenti e indica politiche dedicate. Con questo background Crimson è diventato protagonista e co-curatore del padiglione britannico, invitato dallo studio FAT.

Wouter, come vi siete conosciuti con FAT?
Abbiamo lavorato insieme dodici anni fa, nell’ambito di una competizione per realizzare un parco della cultura all’interno di una new town moderna a Hoogvliet, in un sobborgo di Rotterdam. Abbiamo costruito il Park de Heerlijkheid mettendo a punto un concept a partire dalla cultura locale che era cresciuta all’interno della new town.

Nel parco le attrezzature sono state decise e realizzate con la cittadinanza, un progetto bottom up che rientra nel quadro delle attività di WiMBY (welcome into my back yard), siete partiti dai bisogni dei residenti. Dalla pratica alla teoria, come si è concretizzata la sinergia Crimson e FAT per la Biennale 2014?
FAT ci ha cercato chiedendoci se volevamo partecipare insieme alla open call lanciata dal British Council. Con il nostro contributo il progetto avrebbe preso una piega diversa, integrando un punto di vista che va oltre la sola architettura. Con FAT abbiamo iniziato una collaborazione in pratica nel progetto di Hoogvliet, e ora con questa mostra stiamo cercando di testare se il nostro approccio funziona anche nella teoria.

Secondo te, che ruolo ha l’Italia in questa vostra lettura del modermismo?
L’Italia è stata pioniera, penso al futurismo e ai suoi sogni quasi irrazionali, psichedelici, isterici nei confronti del modernismo. Un atteggiamento non cool ma hot. A livello politico il modernismo in Italia è stato declinato in modi diversi in tante ideologie, dal fascismo al welfare state della democrazia. Trovo molto interessante studiare gli effetti che ha avuto il modernismo sulla comunità, nel bene e nel male, e mi vengono in mente come riferimento alcuni film come la Dolce Vita, la più recente Grande Bellezza ma anche Gomorra. Si potrebbe fare un A Clockwork Jerusalem anche per l’Italia, per raccontare come è stato rappresentato il modernismo nella cultura popolare.

In relazione alle indicazioni di Baratta e Koolhaas, che messaggio volete trasmettere con il vostro padiglione?
Il padiglione britannico ha un format convenzionale: ci sono quadri appesi ai muri, al centro delle stanze si trovano vetrine e sculture. La rappresentazione ricorda una galleria o un museo, non ci poniamo in contrapposizione con l’edificio, lo usiamo senza attaccarlo né negarlo. Ci siamo impegnati per essere chiari nella rappresentazione dei temi: nessuna violenza nei confronti della preesistenza, non abbiamo investito nel design per non confondere sui contenuti, non abbiamo usato metafore o tecnicismi bellissimi che vediamo in altri padiglioni nazionali. Ci siamo preoccupati di raccontare una storia per immagini, comprensibile anche ai non addetti ai lavori, con l’obiettivo di muovere delle emozioni. Nel padiglione britannico ciascuno deve sentire qualcosa di speciale, a modo proprio.

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Paola Pierotti
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