06-04-2024 Paola Pierotti 5 minuti

Innovatore, eclettico e sperimentale. È morto Italo Rota

Il ricordo di Stefano Boeri, Carlo Ratti, Cino Zucchi e del sindaco di Reggio Emilia

Per me l’architettura inizia quando dentro c’è la vita
Italo Rota

Italo Rota si è spento a 70 anni. L’architettura contemporanea ha perso un maestro, e sono i colleghi a dirlo. Rota è stato l’architetto dello stilista Roberto Cavalli e ha firmato il Museo del Novecento nel cuore di Milano. È stato anche assessore nel capoluogo lombardo nella Giunta Formentini e ad Assisi nella prima giunta Proietti. Ha disegnato negozi, case, spazi pubblici e architetture di culto: ha progettato tra l’altro una chiesa a Roma, ma anche un tempio Indu a Dolvi in India. Ha esplorato infiniti temi nel suo percorso professionale, con una particolare attenzione per i musei e i luoghi espositivi come spazio di sperimentazione.

«Italo Rota era un grandissimo innovatore, uno di quei rari progettisti capaci non solo di dare risposte nuove, ma di farsi domande nuove» così dice Carlo Ratti a thebrief, a cui Cino Zucchi fa eco: «Era l’architetto dell’originalità, diversa da quella che i media richiedono oggi alle archistar. Nessuna signature che tende alla ripetizione: è stato un grande sperimentatore con soluzioni circostanziate. Non aveva un genere definito, sapeva fare salti di scala, avrebbe potuto generare un repertorio infinito, come un regista che sorprende sempre». Si aggiunge Stefano Boeri: «è stato un maestro del pensiero laterale: sussurrava (era il suo modo di interloquire) idee inaspettate e potenti. Perdiamo un amico geniale». Alle tante voci si aggiungono quelle dei committenti, rappresentati tra gli altri da Luca Vecchi, sindaco di Reggio Emilia, che custodirà la sua ultima opera realizzata «la sua è stata una straordinaria competenza che la nostra città ha incrociato in un tratto della sua storia recente, per 10 anni di lavoro, e con la quale ha costruito parte del suo protagonismo culturale e del suo impegno per il bene comune».

Alla semplicità, Rota ha sempre preferito la complessità. È stato l’architetto degli edifici reversibili, quelli che non lasciano traccia, anche evitando la costruzione. Ha lavorato con innumerevoli materiali, dati compresi, per sognare e immaginare un mondo da ri-abitare. Con per le persone al centro. Ha indagato attentamente il rapporto tra uomo e natura e si è distinto come innovatore. «Quando ero adolescente – raccontava lui stesso – ero appassionato della natura come creatrice di forme; non andavo a scuola per andare a raccogliere i cristalli. E forse per questo ho fatto anche certi tipi di architettura». Studiando la complessità, Italo Rota ha trovato idee per il futuro. «Lo ha fatto sempre, a partire dalla collaborazione con Gae Aulenti per il museo d’Orsay (dove ogni opera aveva una sua contestualizzazione, rifiutando il concetto di “white room”) fino ad arrivare al geniale recente allestimento in Triennale per la grande mostra sulla Pittura italiana contemporanea – dice Stefano Boeri – dove è riuscito a costituire uno spartito comune a opere diversissime per linguaggio e qualità».

Rota ha costruito a Perugia la mediateca comunale, ha firmato a Palermo il lungomare del Foro Italico e ha riscritto a Reggio Emilia il concetto di museo partecipato. Ha lavorato con Aulenti dalla fine degli anni ‘80 a Parigi e negli anni recenti ha stretto una forte partnership con Carlo Ratti con cui ha firmato il padiglione italiano all’Expo di Dubai (e a thebrief nei mesi della pandemia ha raccontato le aspettative di quell’Expo che avrebbe aperto una nuova era). Rota e Ratti stavano lavorando anche alla trasformazione del complesso dell’ex Sant’Agostino a Modena (sulla base di un concorso vinto dalla stessa Gae Aulenti).

«Siamo diventati amici lavorando insieme sul progetto di Expo Milano 2015. Ma è dopo un’altra esperienza di Expo – quella di Dubai 2020 – che abbiamo iniziato una collaborazione su larga scala. Tutti i progetti degli ultimi 5 anni li abbiamo portati avanti insieme». Carlo Ratti racconta come è nato il loro incontro e il Dna di questa alchimia: «in architettura ci appassionavano gli stessi temi: l’interazione con le persone, i nuovi processi progettuali e – in ultima analisi – una maggior integrazione tra mondo naturale e artificiale». Ancora, «Italo amava giocare, con splendida profondità, e il modo in cui ci siamo incontrati e collaborato negli ultimi anni del suo percorso mi ha spesso fatto pensare che il design, nei suoi momenti migliori, sa uguagliare una delle capacità della grande poesia: essere ugualmente sintetico e toccante, ellittico e scintillante».

I colleghi ricordano Italo per la sua professionalità, con affetto e amicizia. Cino Zucchi cita la sua «libreria pazzesca. Era un erudito, tutt’altro che pedante. Come un caleidoscopio. Il suo lavoro non è mai stato una sommatoria, ma frutto di un pensiero poliedrico». Giovanissimo ha avviato la sua attività professionale con Franco Albini e poi con Vittorio Gregotti e Pierluigi Nicolin. Zucchi richiama «l’influenza della moglie Margherita Palli, scenografa, per ribadire come la sua architettura non sia mai stata riconducibile ad una sommatoria di cose».


Architetto eclettico si è confrontato con temi concreti come quello dell’energia, delle tecnologie, dell’economia circolare, dei servizi, della relazione e partecipazione con i cittadini. Argomenti che sono diventati volano di nuove forme di creatività.


«Rota è stato indiscutibilmente un fuoriclasse in tutte le esperienze e le progettualità che ha portato a compimento. Ho avuto la fortuna e il privilegio di conoscerlo nella fase iniziale del suo percorso con Reggio Emilia – racconta il sindaco Vecchi – e insieme abbiamo consegnato alla città il nuovo museo. Lavorare con lui non era semplice, perché era vulcanico, imprevedibile, ma era soprattutto sorprendente nella sua capacità di intuizione ed esplosione creativa. Il confronto con lui necessitava sempre di essere ricondotto ad un’organicità più razionale, ma Rota rimaneva coerente dentro quella visione che lui ci aveva consegnato. Ha accompagnato la nostra città in un progetto culturale e ambizioso, l’ha aiutata a guardarsi dentro, a sperimentare, cercando l’innovazione». Il sindaco ricorda uno scambio con l’architetto che gli diceva «di aver contribuito a far sentire la città più internazionale, aperta al cambiamento senza mai, tuttavia, rinunciare al solido legame con le sue radici e la sua identità». Il risultato è un museo che ripercorre la storia della città, dei suoi accadimenti e dei suoi valori, ancora una volta «con un approccio sperimentale, aperto al futuro e all’innovazione».

«Sono tanti gli architetti di varie generazioni che ci stanno scrivendo. Italo era visto da molti come un padre, per l’umanità che trasmetteva – commenta Francesca Grassi che ha lavorato per trent’anni accanto a lui – con la sua visione faceva aprire la mente a molti. Non era solo un grande architetto, ma un intellettuale con un sapere trasversale, dalla religione all’arte, dalla filosofia all’intelligenza artificiale». Un patrimonio che rimane nelle sue architetture, nei suoi testi, nei progetti anche effimeri rimasti nella memoria. Con un monito «per me l’architettura inizia quando dentro c’è la vita», come diceva lo stesso Italo.

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Paola Pierotti
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